Parlare di guerra ai bambini non è cosa da poco, anzi! Si tratta di un compito estremamente delicato che può essere fonte di ansia e preoccupazione. Maria Rosaria Montemurro, mamma e Psicologa, ci aiuta a capire come farlo senza creare disagio e paura nei bambini.
Forte è lo sgomento di tutti noi per ciò che sta succedendo in Ucraina; una guerra che arriva mentre una pandemia non è ancora finita. Come Psicologa e come Mamma vorrei utilizzare questo spazio, per aprire spunti di riflessione con i lettori e condividere la comune preoccupazione per un tempo così faticoso. L’obiettivo è aiutare genitori ed educatori a capire come parlare di guerra ai bambini partendo da una domanda fondamentale: cosa sta arrivando ai nostri bambini?
Da terapeuta ho il compito di non colludere con le molteplici richieste che mi stanno arrivando che quasi vorrebbero una sorta di ricetta magica sul come spiegare il tema, quali parole usare etc. Le ricette preconfezionate, come anche le etichette, non mi sono mai piaciute per il semplice fatto che annullano le individualità; anche in una stessa casa ogni figlio è diverso dall’altro, motivo per cui bisognerà munirsi di uno sguardo sufficientemente aperto per accogliere e convalidare le unicità di ciascuno (in classe bisognerà badare alle unicità di ciascun allievo). La fascia 0-6 è certamente la fascia da proteggere maggiormente.
Non è opportuno che bambini di questa età assistano a scene forti, cruente e di grande dolore, che non sono in grado di elaborare; si spaventerebbero inutilmente. In questa fascia d’età i bambini non hanno il senso della distanza per cui risulta difficile per loro capire quanto vicina o lontana da noi sia la guerra.
Bisognerebbe, dunque, tutelarli, mantenere la routine del loro quotidiano e dei riti affettivi, delle loro relazioni protettive. Ecco perché è importante che la famiglia e la scuola mantengano una sorta di continuità delle abitudini e li aiutino nella conservazione della “leggerezza”, tipica della loro età.
È pur vero che non è semplice, in questo periodo, non far passare le informazioni, nascondere le immagini dolorose di bambini che piangono e i suoni di crolli di case dopo una deflagrazione. I palinsesti sono totalmente stravolti e la quasi monotematicità dei programmi è allarmante. Il rischio è che la narrazione di un evento così tragico diventi la storia principale della famiglia. Può quindi capitare che i nostri bambini siano esposti a questo genere di messaggio. È fondamentale considerare che mentre un cervello adulto integra tutto quel dolore con pensieri protettivi, integra competenze emotive e cognitive, per un bambino è difficile modulare quelle voci drammatiche e quelle immagini; non ne ha ancora le capacità, quindi scattano gli allarmi.
Noi addetti ai lavori abbiamo riscontrato, in questo lungo periodo, così provante per l’intero globo, una fragilità adulta e un’angoscia di ruolo alimentate da una pandemia mondiale che ancora non ci ha lasciati. Molti genitori hanno esplicitato il loro sentirsi inadeguati o incompetenti rispetto a questo grande tema e hanno espresso il timore di non dare le risposte giuste.
Se l’adulto si sente turbato, spaventato, destrutturato, non potrà pensare che queste sue sensazioni non passino all’interno del sistema familiare e non vengano percepite dal bambino che in un momento di fragilità “tirerà sù le antenne” e avvertirà che il proprio spazio di sicurezza è minato.
Non va mai perso di vista che siamo noi gli adulti significativi, il porto sicuro che deve garantire protezione, non il contrario, ponendo il bambino completamente fuori ruolo (liddove questo non si riuscisse a fare, sarebbe di fondamentale importanza chiedere un sostegno psicologico). È necessario avere uno sguardo sufficientemente aperto partendo da ciò che i bambini sentono, ciò che loro chiedono e vogliono sapere.
Partire dalle loro domande permette di dare risposte solo ai quesiti posti, non aggiungendo elementi che al momento non sono ancora presenti nelle menti di chi chiede.
Il tutto andrà calibrato con delicatezza, rassicurazione e un linguaggio consono all’età. Il focus da mantenere non sta tanto nel contenuto quanto piuttosto nel contenimento delle paure che sorgono nei figli (o negli alunni). Sarà utile raggiungere i figli lì dove sono, accogliendo i loro bisogni e le loro parole, sintonizzandoci con i loro pensieri, interagendo con loro, non avendo paura di restare nella relazione, sostando all’interno delle emozioni negative, tanto da permettere una adeguata elaborazione delle stesse.
Attraverso il rispecchiamento emotivo e l’attenzione condivisa si attiva un processo in base al quale il bambino diventa più in grado di fronteggiare e gestire sentimenti negativi, ansie, paure così da non trasformarli in angosce e stati depressivi. Dai 9-10 anni si potrebbe cominciare ad attivare un dialogo in merito, magari partendo da quali possono essere le paure che in questo periodo stanno vivendo, ma sempre tenendo a distanza le immagini di morte e distruzione, che gettano un bambino nel panico e attivano una sensazione di pericolo imminente che lo porta verso una “contrazione psicologica e cognitiva”.
SaveTheChildren ha stilato alcuni suggerimenti che genitori e caregiver possono usare con i bambini, per affrontare la delicata conversazione sulla guerra:
Apri uno spazio per farti dire dai bambini ciò che sanno, come stanno e per farti domande. Potrebbero avere un quadro della situazione completamente diverso da quello che hai tu. Concediti il tempo di un ascolto attento e rispettoso relativamente a ciò che pensano e ciò che hanno visto o sentito.
Utilizza un linguaggio consono all’età, proteggendo l’infante da una eccessiva e dettagliata spiegazione della situazione. I bambini più piccoli potrebbero essere appagati anche soltanto con la spiegazione che a volte i paesi combattono tra loro. È più probabile che i bambini più grandi sappiano cosa significhi la guerra, ma possano comunque trarre sostegno dal parlare con te della situazione.
Supportali nella conversazione, sospendendo il giudizio e convalidando le loro preoccupazioni. Se i bambini hanno la possibilità di avere una conversazione aperta e onesta su cose che li turbano, possono sentirsi sollevati e più sicuri.
Ricorda ai bambini che non è loro compito risolvere il problema. Non dovrebbero sentirsi in colpa di continuare a giocare, di incontrare i loro amici o di fare cose che li rendono felici. Mantieni la calma quando ti approcci alla conversazione. I bambini spesso copiano i sentimenti dei loro caregiver: se sei a disagio per la situazione, è probabile che anche tua/o figlia/o sarà a disagio.
Sostieni i bambini che vogliono dare una mano. I bambini che hanno l’opportunità di aiutare le persone colpite dal conflitto possono sentirsi parte della soluzione. I bambini possono creare raccolte fondi, inviare lettere ai decisori locali o creare disegni che chiedono la pace.
L’importante, in ogni caso, sarà mantenere viva la speranza che questo stato di cose non durerà a lungo e che presto tutti torneranno alla vita che facevano prima della guerra.
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Nel corso della mia vita sono sempre stata affascinata dalla genealogia, dai legami familiari, dalle tradizioni. Questa mia grande passione mi ha portato, dopo il Corso di Laurea in Psicologia Clinica e di Comunità, a Specializzarmi in Psicoterapia Sistemico-Relazionale. In seguito alla mia esperienza di Maternità, ho conseguito un Master in Psicologia Clinica Perinatale. Ho dedicato molta attenzione al periodo che va dal desiderio del concepimento fino alla nascita del bambino e proseguendo per i suoi 1000 giorni di Vita, occupandomi con una visuale a tutto tondo della diade che diventa triade. Socia A.S.I.P.P. (Associazione Scientifica Italiana Psicologia Perinatale), tengo docenze all’interno di un Master in Psicologia Perinatale.
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